sabato 11 dicembre 2021

G. A. Cohen - The structure of proletarian unfreedom, 1983.

 § 1. Riassunto. L'idea che viene discussa è fondamentalmente quella secondo cui, poiché il proletario si colloca così come si colloca nei rapporti di potere in virtù della sua indigenza, questa indigenza definisce la sua posizione come di "forzato a vendere la propria forza lavoro". Viene discussa l'idea di questo "essere forzati a" come segno di non-libertà. Viene discussa l'obiezione "di destra" e la sufficienza con cui quelli di sinistra trattano questa obiezione.

Osservazioni.

§ 2. Riassunto. C'è un'obiezione radicale: nessuno obbliga il lavoratore ad accettare l'offerta; è libero di soffrire la fame ed eventualmente morire, nessuno lo obbliga a lavorare e ad essere alimentato a forza. Dunque in fondo, il lavoratore può sempre rifiutare. Questa obiezione non è tanto il fatto che è cinica, ma che muta i termini in questione: quando si parla di "forzato" in termini politico-economici non si sta parlando di costrizione fisica, ma di assenza di alternative accettabili. Ciò che si vuole dire è che "io sono obbligato ad accettare qualsiasi condizione di lavoro venga offerta perché non ci sono alternative migliori, accettabili". Sono libero di accettare condizioni inaccettabili. 

Osservazioni. Allora qui c'è un pericoloso scivolamento sul termine "accettabile/inaccettabile", che puzza un po' troppo di idiosincratico, di psicologico, soggettivo. --> Ciò che deve entrare nella protesta socialista è l'idea di Hagglund: il fatto che potenzialmente dal punto di vista capitalistico è "inaccettabile" solo quella condizione che o porta all'esaurimento della forza lavoro, l'inedia, o non è sostituibile con altra forza lavoro. Dal punto di vista del proletario invece è tanto più accettabile quella condizione quanto più libera il tempo di vita non legato alla necessità naturale. Questo può essere storicamente relativo, in base alle opportunità che la produttività consente (capitale organico) e cioè in base a quanti bisogni primari possono storicamente essere soddisfatti senza lavoro.

§ 3. Riassunto. Obiezione di Nosick, liquidata velocemente. Nozick rileva che non avere alternative accettabili ad A non implica affatto essere forzati a fare A. Tanto più se l'assenza di alternative ad A deriva da un processo privo di ingiustizie. Questa tesi di Nozick ha l'inconveniente di implicare che se x è in carcere perché ha commesso un reato, allora non è propriamente "forzato" a rimanere in carcere, ma semplicemente non ha alternative migliori.

Osservazioni. 1) E' un po' l'idea sartriana di libertà assoluta. Che non riflette la "libertà sociale" in senso hegelian-honnethiano. 2) E' una strana tesi "morale" quella di Nozick, è da notare come lega mancanza di libertà a ingiustizia: chiaramente dipende da un'idea rigorosamente negativa di libertà. Se un processo non presenta costrizioni ma conduce a restrizioni drastiche di opzioni non è ancora possibile dire che conduce a restrizioni di libertà, perché per definizione c'è ancora libertà . E' come se la libertà e l'ingiustizia fosse legata solamente ad uno organo esterno; ma "esterno" a chi? è stranissima come posizione.

§ 4. Riassunto. C'è una precisazione terminologica sul predicato "essere forzato a vendere la propria fora lavoro". In Marx c'è uuna forte intenzione di considerare ciò una oggettiva situazione di illibertà, di costrizione. Perciò quando si parla di "condizioni inaccettabili" non bisogna avere in mente una valutazione soggettiva. Non bisogna rischiare di confondere "illibertà" con "incapacità" (sicurezza di sé, livello culturale, atteggiamento, ecc. Talvolta si può parlare di "diffidenza", e questa può avere cause oggettive). Un'altra precisazione: pur essendo d'accordo con Frankfurt che non bisogna considerare paradigmatica limitazione di libertà la costrizione proveniente da altri, Cohen prenderà questa strada. Anche se accettiamo l'idea degli althusseriani, le strutture di pèotere nella produzione capitalistica non sono in alcun modo "auto-sostenentesi" senza il contributo delle persone.

Definizione: un operaio è "forzato a vendere la propria forza lavoro" nel senso pertinente se e solo se il vincolo, la costrizione a farlo, è un risultato del normale esercizio del potere in relazioni di produzione. Se un millionario è costretto a vendere la propria fora lavoro sulla base di un ricatto, non è obbligato nel senso rilevante del marxismo: non è sulla base dei normali rapporti di produzione, uso standard del potere economico

Osservazioni

§ 5. Riassunto. C'è un'obiezione più sostanziale all'idea che i proletari siano obbligati a vendere la propria forza lavoro, ossia la presenza di persone che pur non avendo niente, non sono costretti a venderla,pur essendo all'interno di rapporti di produzione capitalistici. Siccome possiamo dire che quasi tutti i proletari in Inghilterra hanno la possibilità di risparmiare qualcosina anche se con sforzi e sacrifici, possono fre come quegli immigrati che sulla base di pochi risparmi sono riusciti a comprare un negozio e ad elevarsi al di sopra della condizione di proletari. Dunque non è vero che il proletario "è obbligato a vendere la propria forza lavoro", forse per un periodo lo è, ma non intrinsecamente.

Osservazioni

§ 6. Riassunto. Ci sono due obiezioni facili all'obiezione di cui sopra, e Cohen si occupa di smontarle. La prima sostanzialmente dice che l'obiezione dimostra solo che il proletario non è obbligato a rimanere proletario, ma fin tanto che è proletario è obbligato a vendere la sua forza lavoro. Cohen sottolinea però che nel marxismo ciò che conta è proprio l'idea che se X nel tempo t è obbligato, continuerà ad essere obbligato a vendere la sua forza lavoro. Perciò l'obiezione "di quelli che ce l'hanno fatta" è rilevante, non può essere smontata semplicemente temporalizzando il predicato"essere libero". Si tratta proprio di vedere se ci sono questi fattori perpetuanti o se invece non ci sono. 

Osservazioni. Ad esempio, conta molto la possibilità per il proletario di usufruire di fortuna, abilità, consocenze, ma anche di poter accumulare; cioè di avere uno stipendio che consente di far fronte a prescrizioni varie: affitto, bollette e simili, e insieme di risparmiare alcuni soldi seppur sfiorando la fame, ma poi imbroccare la strada per uscirne.

§ 7. Riassunto. Seconda obiezione. Il sistema capitalistico è così fatto che se tutti uscissero dalla condizione di proletari, il capitalismo si disgregherebbe, non sarebbe più. Quindi se vi è sistema capitalista la gran parte dei proletari dovranno rimanere proletari, quelli che ce la faranno dovranno essere solo una piccola parte.

Osservazioni. L'obiezione è stata formulata dallo stesso Marx. Si noti questo passaggio: "se tutti uscissero, allora il sistema si dissolverebbe", di contro a "se tutti potessero uscire...". Nella seconda formulazione viene salvata l'obiezione di destra: la possibilità c'è, le persone abili la vedono e la imboccano, quelli non abili rimangono proletari, ma non è vero che perciò "sono obbligati a rimanere proletari", ne hanno dei vantaggi; non vogliono rischiare. E' difficile obbiettare a questa visione. Da un punto di vista egualitario e inclusivo, di "libertà sociale democratica" e di "socialismo democratico", potremmo dire che siamo moralmente tenuti, in nome del valore della libertà, a fornirci l'un l'altro le condizioni di ampliare, avvicinare, esercitare a cogliere quelle opportunità, e a "rimuovere gli ostacoli ...", ma ciò non di meno dovremmo ancora ammettere che il capitalismo restringe, rende difficile, l'uscita dalla condizione di proletario, ma non obbliga. Dovremmo cercare cioè un sistema più fluido e inclusivo, ma è comunque abbastanza inclusivo. Se la formulazione "possono uscire" è giusta, se cioè ci sono le condizioni oggettive per non essere costretti, allora le difficoltà sono soggettive. Se è così, significa poi che il capitalismo avrebbe al suo interno un meccanismo per il suo auto-oltrepassamento dialettico, cosa che invece la prima formulazione esclude, il che la rende a parer mio eccessivamente irrealistica, troppo ad hoc e tragica; dovrebbe cioè mostrare quei meccanismi di rinforzo. 

§ 8. Riassunto. L'rgomento del paragrafo precedente Cohen lo sviluppa con l'analogia della stanza. In questo paragrafo fa un'osservazione molto importante. In quella stanza una persona ce l'ha fatta proprio grazie al fatto che le altre persone non se la sono sentita o non ne avevano le capacità o le opportunità (ad esempio la chiave era oggettivamente più vicina ad uno che agli altri). Se tutti avessero voluto e potuto prendere la chiave, allora comunque una sola persona sarebbe uscita: è una lotta per uscire e l'opportunità è metodicamente ristretta. La possibilità oggettiva di uscire c'è, ma è artificialmente ristretta e condizionata a che gli altri non la colgano. In questo senso c'è un grande dosaggio di illibertà in quella situazione. Questo sarebbe un ottimo caso di "libertà soggettiva" ma "illibertà collettiva". Supponiamo il caso che ci sia un sentimento di solidarietà all'interno della stanza-classe. Allora in questo caso ci sarebbe un motivo di altro ordine per non lasciarla, e cioè che 1) ogni tentativo di lasciarla individulamente sarebbe visto male, 2) ogni tentativo di lasciarla dovrebbe essere parte di un tentativo di una liberazione collettiva. In questo senso, individualmente alcuni sarebbero liberi - nello specifico, quelli abili - ma collettivamente sarebbero sempre imprigionati: nell'analogia: non potrebbero dire al carceriere: "siamo liberi". Cohen qui suggerisce il parallelismo con l'argomento di Marx per cui è ideologico dire che il singolo proletario sarà anche obbligato a rivolgersi al capitalista, ma non a un particolare capitalista; così allo stesso modo il singolo operaio è oggettivamente libero, ma collettivamente non libero; in quanto classe è non libero. Se non sono liberi tutti allora non sono libero neanch'io. "Ciò che è vero per tutti deve essere vero per ciascuno": è vero per ogni singolo lavoratore che è libero di lasciare la classe, ma non per tutti i lavoratori contemporaneamente. E il motivo per cui il singolo lavoratore è libero di lasciare la classe è che gli altri non vogliono lasciarla; e il motivo per cui gli altri non vogliono lasciarla è che tutto ciò che è desiderabile se accade a tutti i membri contemporaneamente non è necessariamente desiderabile se accade a un membro separatamente ed esclusivamente. 

Osservazioni. In questo caso sembra proprio che sia il valore della solidarietà a rendere meno desiderabile ciò che è desiderabile. Se l'opzione di rimanere nella classe lavoratrice è meglio di altre opzioni inaccettabili, è comunque anche meglio dell'abbandono dei valori di uguaglianza e solidarietà e giustizia. Ciò che è propagandato come migliore è lo stile di vita capitalista, ma questo non è affatto detto sia migliore.

§ 9. Riassunto. Si elencano tre motivi per cui rimanere nella classe lavoratrice rende evidente che è una illibertà non poterne uscire tutti contemporaneamente. Significa che è un gioco a cui non vogliamo partecipare. Tre motivi, cioè, per cui le vie d'uscita non sono affollate di aspiranti fuggitivi - come invece negli Usa (grossomodo). 1) Perché non tutti ne hanno le capacità e molti se ne rendono conto o cmq ci credono, lo accettano; 2) perché c'è un'ideologia che naturalizza, de-storicizza le condizioni di status sociale; 3) perché è verosimile il divario valoriale esplicitato da Brecht: nessun servo sotto di me, nessun boss sopra di me, e questo come valore collettivo, anche di disprezzo per la meschinità borghese.

Osservazioni. Valori tuttalpiù "imprenditoriali" ma non borghese-capitalistici; cmq egualitari, cooperativisti, di solidarietà. Per molti liberali potrebbero non essere una cosa positiva, promuovendo invece l'individualismo morale; poi magari promuovono il solidarismo all'interno dell'organizzazione in modo più o meno gerarchico e quindi ipocrita e opportunistico.

§ 10. Riassunto. Nel resto dell'articolo verranno discusse la validità e alcune implicazioni degli argomenti 

(7) = I lavoratori inglesi sono individualmente liberi di lasciare il proletariato perché ci sono più vie d'uscita di quanti sono i lavoratori orientati a imboccarle; e 

(8) = I lavoratori inglesi sono collettivamenti non liberi, sebbene individualmente liberi, di lasciare il proletariato, perché le vie di uscita sono poche e affollate. (O cmq se fossero affollate sarebbero comunque poche, cio la diseguaglianza di opportunità è strutturale e naturalizzata ideologicamente). Quelli di destra applauderanno all'argomento 7, quelli di sinistra all'argomento 8.

Osservazioni. Decidere se la 7 o la 8 sono vere o incompatibili, è una questione filosofica? quanto è empirica? (Canzone rap tra Marx e Von Mises)

§ 11. Riassunto.C'è un'obiezione interessante alla tesi 8, che si basa su un'idea politica di libertà per la quale i proletari non sono non-liberi, perché si trovano in una condizione di deprivazione di libertà per processi anonimi e impersonali, come sono quelli che conducono alla creazione di poche vie di uscita dalla subordinazione, analogamente a quelle per cui dei primitivi finirebbero in una caverna senza poterne uscire. I proletari sono "inabili" ma non "non -liberi". I diritti di proprietà privata ad essere rafforzati sotto il capitalismo e sono questi a creare quella disparità strutturale tra chi è subordinato e chi esce da quella cndizione per diventare un proprietario-borghese: sono un caso di esito anonimo di un collettivo operare disgregato o si tratta di un operare umano e quindi di "illibertà"?

In ogni caso, sembra una questione marginale questa della distinzione concettuale, perché io per l'appunto "libero" anche quelli prigionieri nella caverna. Il che illustra bene anche la differenza tra individualmente liberi e collettivamente.

Osservazioni.

§ 12. Riassunto.

Osservazioni.

§ 13. Riassunto.

Osservazioni.

§ 14. Riassunto.

Osservazioni

martedì 7 dicembre 2021

Lavorare è risolvere problemi

§ 1. 

Sarei tentato di elaborare un intero sistema di filosofia del lavoro ma ovviamente è annichilente il solo pensiero di doversi misurare con tutta la cultura comune che si è sviluppata intorno al lavoro, la "saggezza popolare". 

Perciò prendiamo una via che taglia tangenzialmente una serie di tematiche.

Difficilmente può essere sopravvalutato il significato, la portata, esistenziale del ricevere la gratitudine per aver fatto un buon lavoro. 

Sembra una banalità, ma sembra anche essere ciò che consente alla vita di uscire dal grottesco, di riscattare la dimensione tragica e irredimibile dello stare al mondo, ciò che ci alleggerisce il cuore per quella sorta di colpa sfuggente e amara del trovarsi sempre presso l'altro da sé, presso impegni che in fin dei conti si rivelano vuoti; ecco, la gratitudine per aver fatto qualcosa di utile ad un altro è come un  piccolo tocchetto di pane che alimenta la percezione di sensatezza dello stare al mondo; ma soprattutto sembra ripagare almeno un po' di quel senso di vuoto a cui ci consegniamo con pianto, rancore o desertificante rassegnazione quando cerchiamo di ubbidire a imperativi estrinseci. 

Perciò possiamo riassumere l'idea migliore soggiacente al lavoro come l'opera che risolve problemi condivisi. Parlare di "idea migliore soggiacente a" ha un forte richiamo platonico. Nel Primo Libro della Repubblica Platone avanza l'idea che ciò che caratterizza un'attività è il suo fine; facendo l'esempio della matematica e richiamandosi al fine specifico della matematica, viene rimarcato che la matematica viene definita non da tutte le sue esemplificazioni concrete, ma solo da quelle che raggiungono il fine: in altri termini, la matematica è definita in base alle "perfezioni" non anche in base alle sue imperfezioni. In questo senso l'idea soggiacente alla matematica è ben espressa non nei casi in cui il singolo matematico sbaglia un calcolo, ma quando  un teorema si esprima nella sua perfezione, nella sua correttezza e verità. La verità del lavoro è il suo risolvere problemi condivisi - i lavori insensati e alienanti non sono esemplificazioni dell'idea soggiacente al lavoro, escono dal suo archetipo per esemplificare piuttosto la sua trasfigurazione demoniaca, il suo opposto, la sua negazione. (Per esempi di lavori insensati si veda il libro di Graeber).

Senza dubbio l'imperativo del lavoro ha del grottesco, l'abbiamo detto; non so se c'è bisogno di spiegarlo; con una immagine farei l'esempio delle pratiche di premiazione e team leading all'interno di aziende medio-grandi di call center; non ci vuole troppo sforzo di immaginazione per registrare quell' autoconvincimento semi-ipocrita che trasuda dall'entusiasmo con cui ci congratuliamo per una promozione altrui, come se tutti dovessimo essere fieri per la propria avanzata nella scala verso un'altra e supposta più eminente ruota del criceto, come se meritasse i nostri sforzi, come se in fondo nascostamente non volessimo rompere la diga di quel senso di frustrazione, tradimento e insensatezza per un lavoro che non ci appartiene. Lottare per una promozione ha del grottesco, soprattutto se non lo facciamo per la propria famiglia, per guadagnare quanto serve per garantire un futuro stabile ai propri figli, ma "per sé".

Quindi, non vorrei aprire il capitolo della dimensione del sacrificio nel lavoro, però che il lavoro in quanto tale abbia del grottesco penso si possa accettare senza troppi problemi; o meglio, come emerge chiaramente nella Bibbia, il lavoro è una dimensione tragica; ciò che la colora di grottesco è l'imperativo morale e il tentativo di considerarlo entusiasmante.

La dimensione del grottesco è anche però fonte di solidarietà; se la verità del lavoro è la soluzione di problemi condivisi, allora il grottesco non sarà la verità del lavoro, ma la solidarietà. Il congratularsi, il compiacersi, l'inorgoglirsi, per i successi altrui anche in se avvenuti e ricercati in contesti alienanti, è innanzitutto un congratularsi per il fatto che l'altro pare riuscito così a trovare una dimensione di senso persino in quell'insensatezza in cui tutti più o meno consapevolmente ci troviamo, che nonostante tutto quella persona è riuscita a trovare la serenità, la concentrazione, la creatività, la disponibilità, la resistenza, la pazienza, per dare un contributo individuale a che l'azienda possa risolvere meglio un problema altrui, cui l'azienda è votata. Il grottesco nella solidarietà si tramuta in eroico. (Baker).

Entrando più nel vivo della questione, ciòè che mi premeva mantenere in evidenza è che c'è un modo per rendere sopportabile e anche evocativo il proprio lavoro, e cioè il fatto che se Tizio si è rivolto a te è perché aveva una difficoltà, nel mio caso una difficoltà nella quale non faticherei a riconoscermi è quella di trovre un bel posto all'aperto con un bel panorama a prezzi non eccessivi e senza particolari prenotazioni anticipate di mesi per una serata o un pranzo tra amici. La "missione" dell'azienda qual è? quella di fornire una bella location nelle colline toscane vicino alla città, con una buona cucina toscana e un discreto assortimento di cocktail e vini, a prezzi non esagerati, dove passare un pomeriggio o una serata. E' qualcosa che io riconosco come difficile da trovare? qualcosa per cui una volta tornato a casa posso dire "oohh, sono stato proprio bene, era quello che cercavo e ci ritornerò, per fortuna che ho trovato questo posto per il compleanno della mia ragazza!"? questo e poco altro è il senso della ristorazione dell'ospitalità - cercare di dare un accesso facile ad un servizio piacevole per rilassarsi e per fare stare bene le persone care; questo è il senso delle imprese ristorative.

Perché questo uno riesca a viverlo, aiuta molto il capire perché il singolo cliente è venuto qui da te. Stando in cucina non si ha un rapporto diretto col cliente, ma alcune volte mi rendo conto che se so che ad esempio il tal dei tali è venuto qui per fare un regalo alla sua ragazza che si è ripresa dopo una lunga malattia il mio approccio alla preparazione del cibo cambia molto; sarebbe stronzaggine e menefreghismo puro e semplice lasciar correre e procedere come sempre, come se si trattasse di un piano liscio di clienti anonimi e senza forma. Quel ragazzo è qui per risolvere un problema: un'esigenza di trovare senza dannarsi l'anima e poi gettare la spugna, un posto dove passare una bella serata.

Si è sempre piacevolmente colpiti quando si ha a che fare con imprenditori o dipendenti disponibili, che si sentono non dico realizzati, felici, sintonizzanti con gioia su quel lavoro, ma che avvertono che c'è del senso in quello che fanno e che agiscono orientati all'idea soggiacente quel lavoro: la ditta che fa derattizzazione si interfaccia con il ristorante sapendo che per me ristoratore ogni volta che trovo degli escrementi di topo è un problema grosso che ho urgenza di risolvere senza troppe beghe, ed ha senso farlo con "preoccupazione", con "coscienza", proprio per via della catena di "cure" che lega quella di me ristoratore e quella del ragazzo che vuole passare un weekend con la sua fidanzata.

Questa la missione, poi è chiaro che ci sono clienti lamentosi, schizzinosi, snob, arroganti, egocentrici, ecc. Ma questo rientra nell'imperfezione di cui parlava Platone, no? penso di sì, dai.

§ 2. 

L'IKIGAI è un concetto giapponese che significa grossomodo "la ragione per cui vivere". 

Nei manuali di psicologia del lavoro nei libro di crescita personale è stato ormai divulgato suddiviso in quattro grandi aree tematiche: alla cui all'intersezione possiamo immaginarcelo collocato.

§ 3.

1) Se impari, se apprendi sempre cose nuove dalla tua esperienza, dal tuo mondo.

2) Se provi, se azzardi, se metti alla prova ciò che ritieni di aver imparato, per testarlo e migliorarlo.

3) Se rimani.

4) Se condividi.

venerdì 18 dicembre 2020

Sapori e mondi possibili


L'articolo che si trova al link seguente

file:///C:/Users/Niccol%C3%B2/Downloads/Nuovo%20Documento%20di%20Microsoft%20Word-convertito.pdf 

dovrebbe essere l'inizio di un lavoro sulla "matrice dei sapori" (o  anche "grammatica dei sapori") che probabilmente non avrà mai realizzazione. Intreccia fisica, ontologia, logica, cucina, scienza dei sapori, ed è un lavoro più serio di quanto possa sembrare, sebbene la sua serietà sia inversamente proporzionale alla sua filosoficità.

Comunque sono cose divertenti.

mercoledì 25 novembre 2020

Aumentare allenamento trail running

Come tanti altri, mi sono dato l'obiettivo di praticare trail running. Questo prevede corsa su sterrato, percorsi in salita, in discesa, scivolosi, bagnati, sassosi. E' coinvolta perciò della muscolatura diversa e probabilmente aggiuntiva rispetto a quella richiesta dalla semplice corsa lenta su strada. Sia i piedi che le gambe, il bacino e l'intero corpo sono costantemente richiamati a ricalibrare il passo millesimo di secondo dopo millesimo di secondo, e questo è dispendioso sia per il cervello che per il motore areobico. Il motore areobico in particolare può essere costretto ad alzare la soglia di lavoro avvicinandosi progressivamente allo sforzo anaerobico, il che significa anche un elevato dispendio di energie immagazzinate.

In questo post - che ovviamente non costituisce in nessun modo qualcosa di paragonabile ad un consiglio di un esperto né tantomeno medico, ma solo delle riflessioni assolutamente personali su quali pratiche trovo che mi si adattino - riporterò alcune considerazioni su come potrebbe essere un allenamento proficuo per il trail running.

L'esperienza mia - come forse ho già detto in qualche altro post - è strettamente legata alla mia problematica con le bandellette laterali facilmente infiammabili a causa di una discreta supinazione: ossia: piede cavo (contrario di piatto) ed elevato carico sulle parti esterne della gamba. Questo ha anche prodotto varie fascite plantari che solo con un molto graduale esercizio sto riuscendo a controllare e mantenere ad un livello di non dolorosità. Questo mi riporta al discorso: ogni allenamento deve essere graduale e adatto per ciò che il tuo corpo può sopportare. Perciò il mio allenamento per il trail running continua ad essere molto lento. 

Ma adesso ho deciso di dare una sferzata. Come ti accorgi che è giunto il momento? semplicemente quando provi a fare due o tre km in più del solito e ti rendi conto che avresti potuto farne ancora e ti dai del codardo per non averci provato prima - il che ovviamente però non significa che avresti dovuto farlo.
A un certo punto ti rendi conto che puoi mettere da parte il timore e azzardare qualcosa in più.
Esiste una regola più generale, o meglio, più determinata. Se vuoi fare n km, premurati di farne n - m senza tante difficoltà, ed m ovviamente non sarà la metà di n, ma - la butto lì pensando di approssimarmi, ma sicuramente ci sono tanti studi cazzuti su questo - diciamo un 15-20% di n. Se la tua consuetudine è 7-8 km ogni due giorni, come è la mia, allora puoi provare a farne 10.

Questo è il primo elemento. Un corollario della precedente regola è questo: se puoi fare n km senza farti male, e anzi desiderandone di più, allora puoi farne n + 10%(n). Ma il vero senso del corollario è questo: se riesci a correre n km lentamente, ti stai facendo i muscoli sufficienti per correrli. Ma questo significa che sarebbe auspicabile averne qualcuno in più di quei muscoli, in modo da essere più tranquilli.

Questo discorso vale pari pari per il trail running, con una precisazione che deriva da quanto affermato all'inizio del post: ci sono tanti muscoli in più da allenare se vuoi correre sullo sterrato e in condizioni variabili e potenzialmente rischiose per le tue caviglie e per altre articolazioni mobili (non so se il termine "articolazione" per la caviglia è corretto). - Quindi? quindi devi fare anche qualche altro allenamento.

Perciò il mio piano prossimo sarà:

 

Corsa

Esercizi gambe

Esercizi core

Esercizi sopra

merc

6 km corsa lenta + allunghi

Squat/piegamenti

vongola

Plank + allow

Push up/dip

giov

Corsa lunga – 10 km/ 1 h

 

Plank

Push up/dip

Ven

Riscaldamento sterrato

Scatti in salita

Squat

Piegamenti

vongola

Plank

Allow

Push up/dip

Sab

Riposo - passeggiare

 

 

 

dom

Corsa lunga 10 km /1 h

 

Plank

Push up/dip

lun

6 km corsa lenta + allunghi

Squat/piegamenti

vongola

Allow

 

Mart

Riscaldamento sterrato

 

Scatti in salita

vongola

 

 


Entrando un attimo nel particolare sugli esercizi per i glutei, mi riferisco al libro di Graeme Hilditch, ai suggerimenti di Daniele Vecchioni e a quelli di Project Invictus.
Questi sono
1) Squat "naturale" dinamico.
2) Affondi all'indietro.
Questo può essere: affondi all'indietro ///  bulgarian squat /// switching lunges /// in ordine di rischiosità di esecuzione e quindi di necessità di un assetto muscolare e tendineo già ben strutturato che diminuisca il rischio di infortuni e l'esecuzone scomposta.
3) Sali-scendi da un box.
4) Vongola laterale con elastico.

Per quanto riguarda invece gli scatti in salita:
- 15 secondi con una pendenza intorno al 30%, 10-5 volte con un recupero di 2 minuti tra uno scatto e l'altro.

Ripeto: questo è il modo in cui ho scelt8o di combinare alcune intuizioni che ricevo da persone autorevoli, ma può darsi che siano in parte incompatibili l'uno con l'altro se consideriamo la cosa da un punto di vista più analitico.

Con questo allenamento confido di arrivare a maneggiare bene e presto percorsi trail di 10 km. Per arrivare a 15 km il discorso credo possa rimanere invariato tranne che per il fatto che due volte a settimana il percorso non potrà essere di 10 km ma di 15. Se il passo è lento, si può puntare ad arrivare a 20 km al fine di avere una buona preparazione per i 15 km.

Rimane il problema di trovare vicino casa un percorso di sterrato di 15-20 km.